Pier Paolo Cito e il fotogiornalismo in zone di conflitto

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Finalista nel 2007 al premio Pulitzer, Pier Paolo Cito ha un curriculum di tutto rispetto. Fotoreporter di AP (Associated Press) per molti anni, adesso freelance, Cito ha documentato numerosi conflitti, dalla Bosnia all’Iraq, dall’Afghanistan alla Libia, passando per la striscia di Gaza fino all’Etiopia. Alla fine di maggio terrà il workshop Foto/giornalismo in zone di conflitto, presso l’Institute for Global Studies a Roma.

Lo abbiamo raggiunto per presentarci il Workshop e per raccontarci come si lavora in zone ad altissimo rischio.
Abbiamo trovato un collega cui brillano gli occhi nel raccontare le tante esperienze vissute, la cui vita è iniziata più e più volte, e che tiene in altissima considerazione la formazione dei propri studenti.

Come nasce l’idea, l’esigenza di un workshop come questo Foto/giornalismo in zone di conflitto?

Andando in zone di guerra ad alto rischio e pericolo, mi è capitato di trovare professionisti ma non esperti del settore, che, presi dall’entusiasmo e aiutati dalla tecnologia (un tempo queste zone ad alto rischio erano prerogativa delle grandi agenzie), erano lì ma non sapevano bene cosa stessero facendo: significava perciò mettere in pericolo non solo la loro vita, ma anche quella di chi gli stava intorno, dal driver ai soldati. Questo è il primo motivo per cui ho deciso di tenere il workshop.

In questo ultimo periodo poi, perfino nelle situazioni urbane, che un tempo erano più tranquille, si stanno verificando problemi seri, sia con le forze dell’ordine che con i manifestanti (armati di manganelli). Inizia ad esser problematico, perché diventa una vera e propria situazione di guerriglia.

C’è questo parallelo, nel programma, tra guerra e manifestazioni. Anche chi fa cronaca deve avere la prontezza di capire cosa sta per succedere, la pericolosità degli avvenimenti (una carica delle forze dell’ordine, per esempio).

Il corso è diviso in tre parti. Il primo giorno parlo di come lavorare in situazioni urbane, di guerriglia urbana, il secondo nei veri e propri teatri di guerra e nel terzo i partecipanti sono embedded (portati al seguito) con l’esercito, in modo che possano vedere cosa davvero succede nei teatri di guerra. Nella prima fase, quindi, insegno sia come avere rapporti coi manifestanti (non con le persone che manifestano pacificamente, ma con chi è andato lì con manganelli, caschi e viso coperto e che probabilmente, se si presenta così, vuol dire che qualcosa vuole fare) che con le forze dell’ordine.Quello che cerco di insegnare nel corso è prevedere, per avere poi la possibilità di lavorare nel miglior modo possibile.

La stessa cosa, in maniera più complessa, la insegno il secondo giorno di corso: lavorare nei teatri di guerra, sia da embedded che non (un conto è se segui un esercito di uno stato, un conto è se sei con dei miliziani). Questo è lo scopo del mio corso, che ho poi arricchito anche con immagini ed esempi.

Questa volta poi ci sarà anche una vera e propria esercitazione militare con i paracadutisti della Folgore e con la Croce Rossa Italiana che darà nozioni di primo soccorso in situazioni ad alto rischio. Se, per esempio, ci sono dei cecchini, e sei ferito, nessun professionista verrà ad aiutarti, perché si sa che i cecchini non aspettano altro. Una parte fondamentale del corso è cercare di insegnare a non comportarsi istintivamente. Un esempio è quando scoppia una granata: quando esplode, l’istinto ti dice di correre. Ma se corri verrai probabilmente colpito. L’unica cosa da fare è gettarsi a terra, ma l’istinto ti va contro, e ti dice di correre. Devi gettarti a terra.

Per lavoro hai seguito tantissimi conflitti. Hai trovato differenze tra le guerre? La tecnologia ha cambiato tutto?

Le guerre sono tutte diverse. Ciò che non viene mai detto è che le guerre sono fatte dalle persone. Sembra banale, ma non lo è. È quindi importante sapersi rapportare con le persone. Quando ero in Israele, i soldati avevano cinturato, bloccato, un campo profughi, dove io dovevo/volevo entrare. Un ragazzino di venticinque anni, armato e letale, addestrato a sparare, mi aveva bloccato, come tutte le altre persone. Rimasto lì, abbiamo iniziato a parlare. “Ah, you are italian…beautiful girls!” e poi via col calcio. Quel che è successo è che dopo aver passato una buona mezz’ora a parlare di ragazze, io non ero più “il nemico” e quando gli ho detto che dovevo comunque entrare, sono entrato. Un soldato, dopo aver parlato con te, non ti spara. Bisogna trovare, per svolgere il nostro lavoro, che significa entrare dove trovi chiuso, il modo di comunicare con le persone, ed ovviamente altra cosa importante è il rispetto.

La prima cosa che dico a chi partecipa ai miei corsi è di imparare tutto il possibile su dove si andrà, la cultura e le persone che sono coinvolte: puo’ succedere che ti passi accanto il vice di Hamas e se non sai chi è, il tuo lavoro ne risente. Conoscere un po’ la lingua viene molto apprezzato, e conoscere le usanze puo’ essere utilissimo. Ti faccio un esempio. Se tu sei in una zona da un po’ di tempo, e sai che nella piazza dove abiti o ci passi davanti spesso, c’è il mercato tutti i giorni e i bambini giocano, il giorno in cui non vedi i bambini devi prevedere che qualcosa puo’ succedere. A te, straniero, non viene detto (potresti anche essere una spia). Gli insurgents, chi fa la propria battaglia, non vuole vittime locali, vuole l’appoggio della popolazione, ed avverte la gente del luogo.

La tecnologia poi è cambiata: il satellitare ora è accessibile ma bisogna stare attenti, perché proprio la maggiore accessibilità dei luoghi fa dimenticare che serve una preparazione specifica, l’attenzione e l’addestramento sono importanti. Capire anche il tipo di armi che viene usata è importante, perché ti puoi muovere di conseguenza.
Puoi non amare le armi, io non ho nemmeno fatto il militare, ma se vai in un posto dove le stanno usando, devi conoscerle, ne va della tua vita.

Per questo credo che il mio workshop serva: non si puo’ pensare solo a portare a casa una bella immagine, perché il posto fa sì che entrino in gioco altre componenti importanti, come la sicurezza, più importante della foto stessa. Per bilanciare, devi capire il rischio: se muoiono anche i soldati, che sono addestrati, figuriamoci un civile. Otre al fatto che chi è del posto capisce subito se tu sei professionista o meno. Se tu vai e non sei preparato, e non hai esperienza, sarai uno “pericoloso”, per te e per chi ti sta vicino e ti terranno chiuso dentro una stanza o al massimo ti porteranno solo in luoghi molto sicuri dove realizzerai dei servizi come ne trovi tanti, qualcosa come “le suore al Vaticano”.
È importante avere conoscenze specifiche perché solo così potrai avere accesso a zone fotograficamente interessanti e realizzare un buon lavoro.

Come scegliere da che parte raccontare?

Ci sono pochi conflitti nel mondo in cui puoi essere quasi contemporaneamente da una parte e dall’altra. Uno di questi è il conflitto israelo-palestinese: un giorno puoi stare da una parte (fotograficamente) e un’ora dopo, dall’altra. Devi sapere che ci sono dei meccanismi psicologici che influenzano: i cattivi sono sempre dall’altra parte se sei sotto colpi di arma da fuoco, e chi sta accanto a te testimonierà contro l’altro, ma un giornalista deve essere cosciente di questo. Ci puoi fare molto poco. L’ideale sarebbe lavorare con entrambi per realizzare un servizio onesto, ma la cosa fondamentale è non parteggiare.

È molto importante considerare la propaganda: in tutte le guerre ogni componente che si scontra fa largo uso di propaganda. In Libia i francesi sono intervenuti per la storia del cimitero, che non era vera, ed è solo un esempio tra tanti, perché l’opinione pubblica si è scossa di fronte a quelle immagini. Anche il fatto che ti si porti a far vedere certe cose rispetto ad altre fa parte della propaganda.

Realizzare un reportage di fronte al dolore degli altri.

Un giornalista dovrebbe comportarsi come un medico in un pronto soccorso. Se arriva una bambina ferita, il medico non si mette a piangere. Tu sei un professionista e devi essere “freddo” e fare il tuo lavoro. Se ti trovi in certe situazioni e non realizzi le immagini per cui sei lì, sei un voyeur. Cio’ non toglie che nel momento in cui finisci di lavorare, allora puoi anche piangere. Ma se piangi e basta la tua presenza è inutile: quando sei sul posto devi reagire.

L’etica poi è importante. Alla classica domanda “se davanti a te qualcuno viene ferito, tu che fai, lo aiuti o lo fotografi?” cerco di applicare un criterio semplicissimo: se sono l’unico che puo’ aiutare in quel momento, aiuto, se ci sono altre persone vicine che possono farlo, fotografo.

Bellezza e morte, bellezza e sofferenza. Come si lavora in certe situazioni?

Io faccio un’altra domanda: qual è l’alternativa? Fare immagini brutte?
Quando è morto mio padre, mi sono chiesto: “e se ora venissero i fotografi?”. Quando mi trovo in queste situazioni chiedo sempre il permesso di lavorare.

Un esempio. In Palestina, in un periodo con molte vittime, sono andato ad un funerale di un giovane. L’attrezzatura chiusa nella borsa, ho chiesto l’autorizzazione al capo. Solo allora sono entrato, e mi sono ritrovato nella stanza con le donne. Ho dato loro le condoglianze, ho spiegato tutto. Ad un certo punto ho sentito i Kalashnikov, segno che la bara stava arrivando dalla morgue. Le donne hanno iniziato a piangere, ed io ho scattato una bella foto, una madonna. Con la bara è arrivato un ragazzo, che appena mi ha visto mi è venuto addosso e mi ha messo la mano al collo. Io sono rimasto fermo, e in meno di un quarto di secondo le donne hanno smesso di piangere e lo hanno accerchiato e allontanato da me. E mi hanno detto: continua a fare il tuo lavoro.

Dalla Puglia a Roma, il Vaticano e i conflitti. Sei l’esempio che anche chi viene da paesi piccoli puo’ realizzarsi con la fotografia.

Chiunque, da un posto piccolo, dovrebbe prendere il meglio. Certo, Roma rimane un punto di riferimento, ma a questo punto perché non New York? Visto che ti devi spostare, pensa in grande! E poi, nel proprio paese, si conoscono i luoghi, le dinamiche e le persone: bisogna fare la gavetta, e poi andare. Anche perché a Roma ci sono molti professionisti, ma sono tanti e la competizione è enorme. Nel proprio paese il rapporto è più conveniente.

Io ho fatto quello che potevo fare a Brindisi, poi sono andato a Roma, in Vaticano e poi in giro per il mondo. Venti anni fa, quando non c’era internet, da Brindisi, ho inviato delle foto al National Geographic, con una lettera, e mi hanno pubblicato. Poi ho iniziato a lavorare con Ap, che dopo un po’ mi ha preso stabilmente, e via.

Ho fatto quello che potevo in Puglia, ho imparato da solo, e ho voluto insegnare quello che avrei voluto sentire io, e che nessuno diceva. Ho sempre insegnato, il primo corso l’ho tenuto 25 anni fa, ed ho continuato: quello che amo è vedere la luce negli occhi di chi impara qualcosa. Le cose che insegno io le ho imparate, e vissute.

Gli effetti psicologici della guerra, come li affronti?

Ho parlato con molti psicologi e loro parlano del debriefing, che è fondamentale (il debriefing è un intervento psicologico-clinico strutturato che si tiene a seguito di un avvenimento potenzialmente traumatico, allo scopo di eliminare o alleviare le conseguenze emotive spesso generate da questo tipo di esperienze -ndr). La mente umana è come un contenitore, più o meno grande. Si possono sopportare un certo numero di cose, che si accumulano, ma poi ci sono situazioni in cui la goccia fa traboccare il vaso: la cosa migliore da fare è parlarne. Comunicare e parlare con chi ti è vicino. Scaricare la tensione raccontando.

Lì la vita ha altri ritmi. Sai bene che il giorno dopo puoi morire. Certe volte penso di aver già vissuto più di una vita: tante cose le racconto solo a chi già c’è stato, perché gli altri non capirebbero davvero. Sapessi il sapore di quel pacchetto di wafers mangiato dopo un pericolo scampato! Quando vivi certe cose, smetti di giocare e di ridere. Non ti vedi più come un fotografo alla James Nachtwey, e hai paura: lì si rischia davvero, e non è un film, chi muore muore davvero. E io ho visto i miei colleghi morti. Anche dire: “vado a fare questa esperienza interessante” è diverso che dire: “vado a morire”. Prova a svegliarti ed avere la sicurezza che potresti morire, non è più “interessante”. Questo è anche ciò che cerco di raccontare nei miei corsi.

Ci sono molte ragazze che frequentano i tuoi corsi? In guerra le donne hanno problemi diversi?

Le ditte che fabbricano giubbotti anti-proiettili li fanno conformati anche per le donne. Ci sono differenze, magari hanno meno forza fisica e reggono meno i pesi, ma per contro hanno accesso in posti che gli uomini non hanno. Anche la visione forse è diversa. Le donne poi reagiscono e se la cavano benissimo, sono toste! Quando ho iniziato a lavorare a livelli internazionali forse la proporzione era del 30%, ora saremo anche al 60%.

Le tue influenze: interne alla fotografia ed esterne.

Ho iniziato guardando Capa, James Nachtwey e ovviamente mi tengo aggiornato seguendo i miei contemporanei. Tra quelle esterne, c’è un uomo davvero grande: Caravaggio!

Più vado avanti e più mi avvicino alla pittura. Tra una settimana terrò un corso a Milano sulla percezione della luce e dell’uso della luce in fotografia. Più studio la luce, più mi avvicino alla pittura. Noi lavoriamo con la luce che c’è, i pittori la creano e sono responsabili di tutto! Eccezionali. È un processo molto più serio ed impegnativo di quello nostro. Noi dobbiamo imparare a vedere la realtà: non è la tecnica, è l’occhio!