Importante incontro a Milano tra rappresentanti del Direttivo della Fotoreporter Professionisti Associati e i fotoreporter milanesi, la mattina del 15 Aprile 2019, i quali hanno partecipato numerosi mostrando ampio interesse alla vita associativa della categoria.
Nel pomeriggio, il Presidente Claudio Bernardi e i Vicepresidenti Ernesto Ruscio e Andrea Venturini, hanno incontrato un’ampia rappresentanza delle Agenzie Fotografiche e dei Venditori, entusiasti di una cooperazione con la Associazione dei Fotoreporter.
L’argomento principale è il documento delle proposte che la FPA presenterà agli Stati Generali dell’Editoria alla fine del mese corrente.
Il Workshop “Foto/giornalismo in aree di conflitto” è tenuto da Pier Paolo Cito, fotogiornalista impegnato degli ultimi 15 anni nella copertura fotografica dei maggiori conflitti internazionali (wwww.pierpaolocito.it), si terrà a Lecce dal 23 al 25 Luglio nella la Scuola di Cavalleria dell’Esercito Italiano a Lecce.
Nel workshop saranno analizzate le varie difficoltà che si incontrano quando si lavora negli scontri urbani in Italia e all’estero (ormai sempre più frequenti) e di quelle, all’estero, in zone di crisi o di conflitto (teatri di guerre convenzionali e non).
Il workshop non è solo diretto agli operatori media, ma anche a tutti coloro che potrebbero trovarsi ad affrontare queste difficoltà durante il proprio lavoro (ricercatori universitari, dipendenti di società multinazionali) o durante il loro tempo libero (attentati).
Il workshop dura tre giorni ed è diviso in tre fasi:
Nel primo giorno saranno trattate le caratteristiche del lavoro durante gli scontri urbani in Italia e all’estero (abbigliamento, attrezzatura specifica e tutti i dettagli o le dinamiche a cui bisogna far caso). Sarà anche trattato il tipo di comportamento da avere con i manifestanti e le Forze dell’Ordine.
Nel secondo giorno saranno trattate le difficoltà del lavoro all’estero in zone di crisi e di conflitto da freelance. Poi personale militare specializzato analizzerà alcuni argomenti tecnici (rischio IED, Improvised Explosive Devices e le caratteristiche dell’ “embedding”).
Il terzo giorno i partecipanti saranno “embedded” con i militari e parteciperanno ad una reale fase addestrativa dei soldati impegnati in una perlustrazione in “territorio ostile” all’interno di un poligono militare. Si avrà modo di vivere lo stress fisico (indossando giubbetto antiproiettile ed elmetto per tutta la durata dell’esercitazione) e psicologico di chi opera in condizioni ostili e a rischio di attacco nemico.
Lo scopo del workshop è di rendere i partecipanti consapevoli dei rischi che possono correre e quindi anticiparli per prendere consapevolmente le decisioni più adatte nelle varie situazioni.
Il workshop si terrà all’interno della della Scuola di Cavalleria presso la Caserma Zappalà di Lecce, e l’esercitazione si svolgerà nel poligono di Torre Veneri, nei pressi di Lecce durante un fase formativa del personale militare.
Il workshop prevede il pernottamento in caserma nei giorni 23 e 24 Luglio.
Mercoledì 16 maggio alla galleria “La Dolce Vita” in via Palermo 41, saranno presenti tutti i fotoreporter che hanno fatto la storia del foto-giornalismo italiano, dai più vecchi all’ultima generazione. Si ripercorrerà la storia di un lavoro che ha dato tanto e che oggi sta vivendo un momento difficile. Partecipazione libera.
Pier Paolo Cito lavora da oltre 20 anni come fotoreporter, (iscritto all’Ordine dei Giornalisti Pubblicistid al 1997, Professionisti dal 2002).
Ha lavorato come freelance e come staffer per l’agenzia USA Associated Press in vari conflitti e situazioni di tensione tra cui: Israele, Palestina, Kosovo, Montenegro, Libano, Etiopia, Iraq, Afghanistan, Libia, Nagorno-Karabakh etc.
Ha vinto vari premi internazionali ed è stato finalista al Premio Pulitzer nel 2007.
E’ docente di Fotogiornalismo in vari centri di Istruzione Superiore in Italia e all’estero e di corsi propedeutici per chi lavora in zone
di conflitto.Collabora come docente di fotogiornalismo con lo Stato Maggiore della Difesa italiano, è è consulente della FAO e di altre agenzie della Nazioni Unite in Medio Oriente
Dopo le elezioni del nuovo direttivo dell’associazione e la dinamica ripresa delle attività, che ci vedono impegnati nel dare la voce ed il supporto ai professionisti della fotografia, abbiamo voluto estendere i nostri canali di comunicazione, per poter interagire con tutti in modo più dinamico.
Oltre al sito, siamo ora anche presenti sui social. Il primo in assoluto è il Facebook, sul quale cerchiamo di pubblicare sempre più spesso le news, curiosità e le discussioni sul mondo della fotografia, leggi, temi di interesse comune o le esperienze legate alle attrezzature che usiamo.
La pagine Facebook è aperta a tutti, basta seguirla e condividerla quando vi troverete delle cose interessanti. Chiaramente è benvenuto anche un “like” o un commento, per movimentare la discussione e condividere le proprie esperienze.
Tra breve sarà possibile anche seguirci sul nostro Instagram.
Come è ormai chiaro, questo social, che è basato quasi esclusivamente sull’immagini, noi lo utilizzeremo per proporvi, attraverso le loro immagini, le attività dei nostri soci, i pezzi del loro racconto quotidiano.
Nella speranza che questa parte della nostra presenza digitale possa avvicinare non solo i professionisti ma chiunque sia appassionato di fotografia, alle nostre attività come associazione, aspettiamo le vostre reazioni, domande e consigli, per poter interagire nel modo migliore e più utile per tutti.
I fotoreporter romani a ALBERTO CZAJKOWSKI con affetto e riconoscenza. Roma, 19 aprile 2016
Da tanti anni a fianco dei professionisti dell’immagine, con la sua competenza e gentile disponibilità, nell’assistere e consigliare i fotoreporter, Alberto Czajkowski ha ricevuto una targa a dimostrazione del proprio lavoro da parte dei fotoreporter romani.
Occasione è stato il Canon Pro Photographer Symposium per la presentazione della nuova ammiraglia in casa Canon, la EOS 1D X MK II, che si è tenuto a Roma presso l’hotel Abitart lo scorso martedì 19 aprile.
Alberto negli anni ha dimostrato una grande attenzione verso i fotoreporter, tanto da diventare punto di riferimento importante per tutti i “canonisti”.
Fotografi provenienti dai diversi settori della fotografia hanno quindi voluto testimoniare ad Alberto l’affetto e la riconoscenza per il grande lavoro svolto in tutti questi anni a loro fianco.
A consegnare la targa alla fine del suo intervento, la nostra presidente Elisabetta Villa.
“No al contratto, no all’accordo su equo compenso e lavoro autonomo”
Un accordo sul lavoro autonomo stipulato tra le parti, sindacato ‘unico’ dei giornalisti (Fnsi) ed editori (Fieg), che diventa legge dello Stato e legalizza lo sfruttamento: 3 mila euro l’anno lordi, 250 al mese. Lo chiamano “equo” compenso, con il placet del governo nella persona del sottosegretario all’Editoria Luca Lotti. Per i giornalisti precari e freelance si tratta di un compenso “iniquo” e di un accordo truffa. E’ stato svenduto il lavoro dei giornalisti, rendendoli più ricattabili, sfruttati e licenziabili. A essere minacciata è la libertà di stampa, baluardo della tenuta democratica delle istituzioni.
Grazie a questo accordo, è legge dello Stato che un giornalista non è sfruttato se: guadagna 20 euro per un articolo di quotidiano (di almeno 1600 battute), 6 euro e 25 per un lancio di agenzia, 250 euro al mese e 3000 euro lorde l’anno per 144 articoli l’anno. Non conta l’argomento, può essere un’inchiesta sulle mafie o l’inaugurazione di un teatro, e nemmeno la testata: “quotidiano” è il Corriere della Sera o l’Eco di Canicattì. E’ legge dello Stato il principio assurdo che più si lavora meno si guadagna: fino a 144 articoli in un anno la paga ‘equa’ è 250 euro al mese, da 145 a 288 articoli è altrettanto ‘equo’ essere pagati il 60% di 250 euro e da 289 a 432 articoli, il 50% di 250. È stato infatti introdotto per legge un ‘riduttore’ dei compensi. Ma se lo sfruttamento legalizzato è chiamato “equo compenso”, il “riduttore” lo definiscono il “moltiplicatore”.
E’ legge dello Stato che si può scrivere più di un articolo al giorno per un giornale (432 articoli l’anno) lavorando come un dipendente, ma senza contratto e senza essere assunti. Come si fa a dire che questo è lavoro autonomo?
L’accordo sul lavoro autonomo apre la strada all’espulsione in massa dei dipendenti dalle redazioni. Perché a parità di quantità e qualità di lavoro svolto, un giornalista autonomo costa cifre ridicole rispetto a un contrattualizzato.
La ratio della legge sull’equo compenso, promulgata a dicembre 2012 era di proteggere i tantissimi giornalisti non assunti, oltre il 60% degli iscritti all’Ordine, dallo sfruttamento. Il compito di stabilire la soglia dell’equo compenso, sotto il quale si configura lo sfruttamento e la perdita dei contributi pubblici all’editoria, spettava alla Commissione governativa presieduta dal sottosegretario Luca Lotti, il presidente Fnsi Giovanni Rossi, il direttore generale Fieg Fabrizio Carotti, il presidente Inpgi Andrea Camporese e il presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino, unico ad avere votato contro. Il risultato raggiunto rende i giornalisti autonomi potenzialmente ancora più poveri.
Questo è un pessimo accordo che stabilisce un pericoloso precedente e lede la dignità di tutti i lavoratori. I giornalisti che lavorano da collaboratori esterni delle redazioni non hanno potuto impedirne l’approvazione. I loro rappresentanti all’interno della Commissione nazionale freelance e della commissione contratto dell’Fnsi non hanno avuto voce in capitolo, se non la possibilità di dissociarsi a cose fatte.
Il paradosso è che siamo giornalisti ma è difficile farci sentire. Le prossime iniziative sono la presentazione di un’interrogazione parlamentare, l’appello per un Referendum vero, da tenersi nelle redazioni e nelle Associazioni, una consultazione trasparente e inclusiva che abbia come platea quelli a cui questo accordo si dovrà applicare.
Appuntamento atteso è la manifestazione “Stop Fnsi” prevista per l’8 luglio alle ore 10, quando i giornalisti in rivolta si ritroveranno sotto la sede del sindacato in corso Vittorio Emanuele a Roma.
Venerdì 16 maggio ore 20:00 Olimpic Club
Lungotevere di Pietra Papa, 2 (Marconi) Torneo di calcio a 5.
8 squadre partecipanti divise in 2 gironi da 4.
Capitano della Squadra dei Fotografi è Fabio Mazzarella.
La famiglia Cerreti sarà presente e premierà i vincitori.
Lo sponsor del torneo e’ il laboratorio Il colore.
I soldi, ricavati dalla quota partecipazione degli atleti e da offerte libere dei colleghi fotografi, saranno devoluti la sera stessa alla famiglia di Danilo.
Finalista nel 2007 al premio Pulitzer, Pier Paolo Cito ha un curriculum di tutto rispetto. Fotoreporter di AP (Associated Press) per molti anni, adesso freelance, Cito ha documentato numerosi conflitti, dalla Bosnia all’Iraq, dall’Afghanistan alla Libia, passando per la striscia di Gaza fino all’Etiopia. Alla fine di maggio terrà il workshop Foto/giornalismo in zone di conflitto, presso l’Institute for Global Studies a Roma.
Lo abbiamo raggiunto per presentarci il Workshop e per raccontarci come si lavora in zone ad altissimo rischio.
Abbiamo trovato un collega cui brillano gli occhi nel raccontare le tante esperienze vissute, la cui vita è iniziata più e più volte, e che tiene in altissima considerazione la formazione dei propri studenti.
Come nasce l’idea, l’esigenza di un workshop come questo Foto/giornalismo in zone di conflitto?
Andando in zone di guerra ad alto rischio e pericolo, mi è capitato di trovare professionisti ma non esperti del settore, che, presi dall’entusiasmo e aiutati dalla tecnologia (un tempo queste zone ad alto rischio erano prerogativa delle grandi agenzie), erano lì ma non sapevano bene cosa stessero facendo: significava perciò mettere in pericolo non solo la loro vita, ma anche quella di chi gli stava intorno, dal driver ai soldati. Questo è il primo motivo per cui ho deciso di tenere il workshop.
In questo ultimo periodo poi, perfino nelle situazioni urbane, che un tempo erano più tranquille, si stanno verificando problemi seri, sia con le forze dell’ordine che con i manifestanti (armati di manganelli). Inizia ad esser problematico, perché diventa una vera e propria situazione di guerriglia.
C’è questo parallelo, nel programma, tra guerra e manifestazioni. Anche chi fa cronaca deve avere la prontezza di capire cosa sta per succedere, la pericolosità degli avvenimenti (una carica delle forze dell’ordine, per esempio).
Il corso è diviso in tre parti. Il primo giorno parlo di come lavorare in situazioni urbane, di guerriglia urbana, il secondo nei veri e propri teatri di guerra e nel terzo i partecipanti sono embedded (portati al seguito) con l’esercito, in modo che possano vedere cosa davvero succede nei teatri di guerra. Nella prima fase, quindi, insegno sia come avere rapporti coi manifestanti (non con le persone che manifestano pacificamente, ma con chi è andato lì con manganelli, caschi e viso coperto e che probabilmente, se si presenta così, vuol dire che qualcosa vuole fare) che con le forze dell’ordine.Quello che cerco di insegnare nel corso è prevedere, per avere poi la possibilità di lavorare nel miglior modo possibile.
La stessa cosa, in maniera più complessa, la insegno il secondo giorno di corso: lavorare nei teatri di guerra, sia da embedded che non (un conto è se segui un esercito di uno stato, un conto è se sei con dei miliziani). Questo è lo scopo del mio corso, che ho poi arricchito anche con immagini ed esempi.
Questa volta poi ci sarà anche una vera e propria esercitazione militare con i paracadutisti della Folgore e con la Croce Rossa Italiana che darà nozioni di primo soccorso in situazioni ad alto rischio. Se, per esempio, ci sono dei cecchini, e sei ferito, nessun professionista verrà ad aiutarti, perché si sa che i cecchini non aspettano altro. Una parte fondamentale del corso è cercare di insegnare a non comportarsi istintivamente. Un esempio è quando scoppia una granata: quando esplode, l’istinto ti dice di correre. Ma se corri verrai probabilmente colpito. L’unica cosa da fare è gettarsi a terra, ma l’istinto ti va contro, e ti dice di correre. Devi gettarti a terra.
Per lavoro hai seguito tantissimi conflitti. Hai trovato differenze tra le guerre? La tecnologia ha cambiato tutto?
Le guerre sono tutte diverse. Ciò che non viene mai detto è che le guerre sono fatte dalle persone. Sembra banale, ma non lo è. È quindi importante sapersi rapportare con le persone. Quando ero in Israele, i soldati avevano cinturato, bloccato, un campo profughi, dove io dovevo/volevo entrare. Un ragazzino di venticinque anni, armato e letale, addestrato a sparare, mi aveva bloccato, come tutte le altre persone. Rimasto lì, abbiamo iniziato a parlare. “Ah, you are italian…beautiful girls!” e poi via col calcio. Quel che è successo è che dopo aver passato una buona mezz’ora a parlare di ragazze, io non ero più “il nemico” e quando gli ho detto che dovevo comunque entrare, sono entrato. Un soldato, dopo aver parlato con te, non ti spara. Bisogna trovare, per svolgere il nostro lavoro, che significa entrare dove trovi chiuso, il modo di comunicare con le persone, ed ovviamente altra cosa importante è il rispetto.
La prima cosa che dico a chi partecipa ai miei corsi è di imparare tutto il possibile su dove si andrà, la cultura e le persone che sono coinvolte: puo’ succedere che ti passi accanto il vice di Hamas e se non sai chi è, il tuo lavoro ne risente. Conoscere un po’ la lingua viene molto apprezzato, e conoscere le usanze puo’ essere utilissimo. Ti faccio un esempio. Se tu sei in una zona da un po’ di tempo, e sai che nella piazza dove abiti o ci passi davanti spesso, c’è il mercato tutti i giorni e i bambini giocano, il giorno in cui non vedi i bambini devi prevedere che qualcosa puo’ succedere. A te, straniero, non viene detto (potresti anche essere una spia). Gli insurgents, chi fa la propria battaglia, non vuole vittime locali, vuole l’appoggio della popolazione, ed avverte la gente del luogo.
La tecnologia poi è cambiata: il satellitare ora è accessibile ma bisogna stare attenti, perché proprio la maggiore accessibilità dei luoghi fa dimenticare che serve una preparazione specifica, l’attenzione e l’addestramento sono importanti. Capire anche il tipo di armi che viene usata è importante, perché ti puoi muovere di conseguenza. Puoi non amare le armi, io non ho nemmeno fatto il militare, ma se vai in un posto dove le stanno usando, devi conoscerle, ne va della tua vita.
Per questo credo che il mio workshop serva: non si puo’ pensare solo a portare a casa una bella immagine, perché il posto fa sì che entrino in gioco altre componenti importanti, come la sicurezza, più importante della foto stessa. Per bilanciare, devi capire il rischio: se muoiono anche i soldati, che sono addestrati, figuriamoci un civile. Otre al fatto che chi è del posto capisce subito se tu sei professionista o meno. Se tu vai e non sei preparato, e non hai esperienza, sarai uno “pericoloso”, per te e per chi ti sta vicino e ti terranno chiuso dentro una stanza o al massimo ti porteranno solo in luoghi molto sicuri dove realizzerai dei servizi come ne trovi tanti, qualcosa come “le suore al Vaticano”. È importante avere conoscenze specifiche perché solo così potrai avere accesso a zone fotograficamente interessanti e realizzare un buon lavoro.
Come scegliere da che parte raccontare?
Ci sono pochi conflitti nel mondo in cui puoi essere quasi contemporaneamente da una parte e dall’altra. Uno di questi è il conflitto israelo-palestinese: un giorno puoi stare da una parte (fotograficamente) e un’ora dopo, dall’altra. Devi sapere che ci sono dei meccanismi psicologici che influenzano: i cattivi sono sempre dall’altra parte se sei sotto colpi di arma da fuoco, e chi sta accanto a te testimonierà contro l’altro, ma un giornalista deve essere cosciente di questo. Ci puoi fare molto poco. L’ideale sarebbe lavorare con entrambi per realizzare un servizio onesto, ma la cosa fondamentale è non parteggiare.
È molto importante considerare la propaganda: in tutte le guerre ogni componente che si scontra fa largo uso di propaganda. In Libia i francesi sono intervenuti per la storia del cimitero, che non era vera, ed è solo un esempio tra tanti, perché l’opinione pubblica si è scossa di fronte a quelle immagini. Anche il fatto che ti si porti a far vedere certe cose rispetto ad altre fa parte della propaganda.
Realizzare un reportage di fronte al dolore degli altri.
Un giornalista dovrebbe comportarsi come un medico in un pronto soccorso. Se arriva una bambina ferita, il medico non si mette a piangere. Tu sei un professionista e devi essere “freddo” e fare il tuo lavoro. Se ti trovi in certe situazioni e non realizzi le immagini per cui sei lì, sei un voyeur. Cio’ non toglie che nel momento in cui finisci di lavorare, allora puoi anche piangere. Ma se piangi e basta la tua presenza è inutile: quando sei sul posto devi reagire.
L’etica poi è importante. Alla classica domanda “se davanti a te qualcuno viene ferito, tu che fai, lo aiuti o lo fotografi?” cerco di applicare un criterio semplicissimo: se sono l’unico che puo’ aiutare in quel momento, aiuto, se ci sono altre persone vicine che possono farlo, fotografo.
Bellezza e morte, bellezza e sofferenza. Come si lavora in certe situazioni?
Io faccio un’altra domanda: qual è l’alternativa? Fare immagini brutte?
Quando è morto mio padre, mi sono chiesto: “e se ora venissero i fotografi?”. Quando mi trovo in queste situazioni chiedo sempre il permesso di lavorare.
Un esempio. In Palestina, in un periodo con molte vittime, sono andato ad un funerale di un giovane. L’attrezzatura chiusa nella borsa, ho chiesto l’autorizzazione al capo. Solo allora sono entrato, e mi sono ritrovato nella stanza con le donne. Ho dato loro le condoglianze, ho spiegato tutto. Ad un certo punto ho sentito i Kalashnikov, segno che la bara stava arrivando dalla morgue. Le donne hanno iniziato a piangere, ed io ho scattato una bella foto, una madonna. Con la bara è arrivato un ragazzo, che appena mi ha visto mi è venuto addosso e mi ha messo la mano al collo. Io sono rimasto fermo, e in meno di un quarto di secondo le donne hanno smesso di piangere e lo hanno accerchiato e allontanato da me. E mi hanno detto: continua a fare il tuo lavoro.
Dalla Puglia a Roma, il Vaticano e i conflitti. Sei l’esempio che anche chi viene da paesi piccoli puo’ realizzarsi con la fotografia.
Chiunque, da un posto piccolo, dovrebbe prendere il meglio. Certo, Roma rimane un punto di riferimento, ma a questo punto perché non New York? Visto che ti devi spostare, pensa in grande! E poi, nel proprio paese, si conoscono i luoghi, le dinamiche e le persone: bisogna fare la gavetta, e poi andare. Anche perché a Roma ci sono molti professionisti, ma sono tanti e la competizione è enorme. Nel proprio paese il rapporto è più conveniente.
Io ho fatto quello che potevo fare a Brindisi, poi sono andato a Roma, in Vaticano e poi in giro per il mondo. Venti anni fa, quando non c’era internet, da Brindisi, ho inviato delle foto al National Geographic, con una lettera, e mi hanno pubblicato. Poi ho iniziato a lavorare con Ap, che dopo un po’ mi ha preso stabilmente, e via.
Ho fatto quello che potevo in Puglia, ho imparato da solo, e ho voluto insegnare quello che avrei voluto sentire io, e che nessuno diceva. Ho sempre insegnato, il primo corso l’ho tenuto 25 anni fa, ed ho continuato: quello che amo è vedere la luce negli occhi di chi impara qualcosa. Le cose che insegno io le ho imparate, e vissute.
Gli effetti psicologici della guerra, come li affronti?
Ho parlato con molti psicologi e loro parlano del debriefing, che è fondamentale (il debriefing è un intervento psicologico-clinico strutturato che si tiene a seguito di un avvenimento potenzialmente traumatico, allo scopo di eliminare o alleviare le conseguenze emotive spesso generate da questo tipo di esperienze -ndr). La mente umana è come un contenitore, più o meno grande. Si possono sopportare un certo numero di cose, che si accumulano, ma poi ci sono situazioni in cui la goccia fa traboccare il vaso: la cosa migliore da fare è parlarne. Comunicare e parlare con chi ti è vicino. Scaricare la tensione raccontando.
Lì la vita ha altri ritmi. Sai bene che il giorno dopo puoi morire.Certe volte penso di aver già vissuto più di una vita: tante cose le racconto solo a chi già c’è stato, perché gli altri non capirebbero davvero. Sapessi il sapore di quel pacchetto di wafers mangiato dopo un pericolo scampato! Quando vivi certe cose, smetti di giocare e di ridere. Non ti vedi più come un fotografo alla James Nachtwey, e hai paura: lì si rischia davvero, e non è un film, chi muore muore davvero. E io ho visto i miei colleghi morti. Anche dire: “vado a fare questa esperienza interessante” è diverso che dire: “vado a morire”. Prova a svegliarti ed avere la sicurezza che potresti morire, non è più “interessante”. Questo è anche ciò che cerco di raccontare nei miei corsi.
Ci sono molte ragazze che frequentano i tuoi corsi? In guerra le donne hanno problemi diversi?
Le ditte che fabbricano giubbotti anti-proiettili li fanno conformati anche per le donne. Ci sono differenze, magari hanno meno forza fisica e reggono meno i pesi, ma per contro hanno accesso in posti che gli uomini non hanno. Anche la visione forse è diversa. Le donne poi reagiscono e se la cavano benissimo, sono toste! Quando ho iniziato a lavorare a livelli internazionali forse la proporzione era del 30%, ora saremo anche al 60%.
Le tue influenze: interne alla fotografia ed esterne.
Ho iniziato guardando Capa, James Nachtwey e ovviamente mi tengo aggiornato seguendo i miei contemporanei. Tra quelle esterne, c’è un uomo davvero grande: Caravaggio!
Più vado avanti e più mi avvicino alla pittura. Tra una settimana terrò un corso a Milano sulla percezione della luce e dell’uso della luce in fotografia. Più studio la luce, più mi avvicino alla pittura. Noi lavoriamo con la luce che c’è, i pittori la creano e sono responsabili di tutto! Eccezionali. È un processo molto più serio ed impegnativo di quello nostro. Noi dobbiamo imparare a vedere la realtà: non è la tecnica, è l’occhio!
Torna a Roma, al Museo di Roma in Trastevere, il consueto appuntamento con il World Press Photo, il prestigioso premio di Fotogiornalismo internazionale.
La mostra rimarrà a Roma dal 2 al 23 maggio.
Il Premio World Press Photo è uno dei più importanti riconoscimenti nell’ambito del Fotogiornalismo. Ogni anno, da 57 anni, una giuria indipendente, formata da esperti internazionali, è chiamata a esprimersi su migliaia di domande di partecipazione provenienti da tutto il mondo, inviate alla World Press Photo Foundation di Amsterdam da fotogiornalisti, agenzie, quotidiani e riviste.
Tutta la produzione internazionale viene esaminata e le foto premiate, che costituiscono la mostra, sono pubblicate nel libro che l’accompagna.
Per questa edizione, le immagini sottoposte alla giuria del concorso World Press Photo sono state 98.671, inviate da 5.754 fotografi professionisti di 132 diverse nazionalità.
Anche quest’anno la giuria ha diviso i lavori in nove diverse categorie: Spot News, Notizie Generali, Storie d’attualità, Vita quotidiana, Volti (Ritratti in presa diretta e Ritratti in posa), Natura, Sport in azione e Sport in primo piano.
Sono stati premiati 53 fotografi di 25 diverse nazionalità: Argentina, Australia, Azerbaijan, Bangladesh, Bulgaria, Cina, Repubblica Ceca, El Salvador, Finlandia, Francia, Germania, Iran, Italia, Giordania, Messico, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Polonia, Russia, Serbia, Sud Africa, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti.
La Foto dell’anno 2013 è dell’americano John Stanmeyer di VII Photo Agency. L’immagine mostra dei migranti africani con i cellulari sulla spiaggia di Gibuti nel tentativo di prendere un segnale telefonico gratuito dalla confinante Somalia, un collegamento con i parenti lontani. Gibuti è una tappa consueta per i migranti in transito da paesi come la Somalia, l’Etiopia e l’Eritrea, in cerca di una vita migliore in Europa e in Medio Oriente. La foto è anche vincitrice del Primo Premio nella categoria Storie di attualità ed è stata realizzata per il National Geographic.
Quest’anno sono tre i fotografi italiani premiati: Bruno D’Amicis, nella categoria Foto Singole Natura, Alessandro Penso, per Foto Singole in Notizie Generali e Gianluca Panella per Reportage in Notizie Generali.
Di seguito tutti i vincitori.
John Stanmeyer – WORLD PRESS PHOTO DELL’ANNO 2013
STORIE D’ATTUALITÀ
FOTO SINGOLE
1° premio / John Stanmeyer
2° premio / Maciek Nabrdalik
3° premio / Christopher Vanegas
REPORTAGE
1° premio / Sara naomi Lewkowicz
2° premio / Robin Hammond
3° premio / Marcus Bleasdale
VITA QUOTIDIANA
FOTO SINGOLE
1° premio / Julius Schrank
2° premio / Andrea Bruce
3° premio / Julie McGuire
REPORTAGE
1° premio / Fred Ramos
2° premio / Tanya Habjouqa
3° premio / Elena Chernyshova
NOTIZIE GENERALI
FOTO SINGOLE
1° premio / Alessandro Penso
2° premio / Moises Saman
3° premio / Amir Pourmand
REPORTAGE
1° premio / Chris McGrath
2° premio / William Daniels
3° premio / Gianluca Panella
SPOT NEWS
FOTO SINGOLE
1° premio / Philippe Lopez
2° premio / John Tlumacki
3° premio / Taslima Akhter
REPORTAGE
1° premio / Goran Tomasevic
2° premio / Tyler Hicks
3° premio / Rahul Talukder
VOLTI RITRATTI IN PRESA DIRETTA
FOTO SINGOLE
1° premio / Markus Schreiber
2° premio / Rena Effendi
3° premio / Pau Barrena
REPORTAGE
1° premio / Carla Kogelman
2° premio / Peter van Agtmael
3° premio / Rena Effendi
VOLTI RITRATTI IN POSA
FOTO SINGOLE
1° premio / Brent Stirton
2° premio / Abbie Trayler-Smith
3° premio / nadav Kander
REPORTAGE
1° premio / Danila Tkachenko
2° premio / Denis dailleux
3° premio / Nikita Shokhov
NATURA
FOTO SINGOLE
1° premio / Bruno d’Amicis
2° premio / Markus Varesvuo
3° premio / Shangzhen Fan
REPORTAGE
1° premio / Steve Winter
2° premio / Kacper Kowalski
3° premio / christian Ziegler
SPORT IN AZIONE
FOTO SINGOLE
1° premio / Emiliano Lasalvia
2° premio / Andrzej Grygiel
3° premio / Al Bello
REPORTAGE
1° premio / Jia Guorong
2° premio / Ezra Shaw
3° premio / Quinn Rooney
SPORT IN PRIMO PIANO
FOTO SINGOLE
1° premio / Jeff Pachoud
2° premio / Anastas Tarpanov
3° premio / Donald Miralle
REPORTAGE
1° premio / Peter Holgersson
2° premio / Kunrong chen
3° premio / Alyssa Schukar
Info Mostra:
Museo di Roma in Trastevere, Piazza Sant’Egidio 1B
martedi-domenica 10.00-20.00
2-23 Maggio 2014 museodiromaintrastevere.it